
E in platea va il supercafone
Sabato 10 febbraio 2018 da < La Gazzetta del Mezzogiorno >
Lascia un Commento Inserito da Lino Patruno
La signora ha fretta. Ce n’è sempre una impellicciata che scatta in piedi come un grillo un nanosecondo dopo la fine dello spettacolo a teatro. Cioè un altro dei luoghi in cui il Tempo Cafone che viviamo dà il meglio (o il peggio) di se stesso. Anzi il tempo in cui ciascuno fa come gli pare nella società civile mai così incivile. E non è solo la signora che ha fretta, tanto da costringere a pubblicare istruzioni per l’uso del teatro. Anzi del non uso. Come ha fatto la Fondazione Donizetti di Bergamo per i suoi concerti, presumibilmente non concerti rock. E meno che mai in uno stadio.
COZZALONI DA TEATRO Al primo posto della reprimenda, ovvio, il cellulare. Essendo le avvertenze di spegnerlo o silenziarlo una istigazione al contrario. C’è sempre un trillo killer, sapendo che la più discreta delle attuali suonerie è una <cozzalonata> di fronte alla quale Checco Zalone è un lord inglese. Si ricorda l’attore Hugh Jackman nel 2009 a Broadway, rivolto a uno spettatore dal telefonino squillante: <Fa’ pure con calma, noi possiamo aspettare>. Ma anche i piccoli schermi che si illuminano come lampare, e non solo per la foto pirata da mandare immediatamente all’amica da far schiattare. No, per mettere un <mi piace> su Facebook, dovesse perdere un giro. E fregandosene del laser dell’organizzazione che ti punta minaccioso, ci sono momenti che sembrano una guerra stellare.
Se lo spettacolo è noioso e qualcuno se ne va al sonno, si spera che non abbia problemi di adenoidi e che non russi. E lasciamo stare quelli che, se si esegue un Brahms, dopo il primo movimento battono le mani, non sapendo che ce ne sono altri due o tre (successo, del resto, anche all’inaugurazione del Petruzzelli ricostruito, quando in platea c’erano soprattutto sindaci). Poi le stagionali tossi da sanatorio, tenersi i batteri a casa propria. Neanche da parlarne la caramella, il cui scartocciamento è più molesto di una zanzara d’estate. Anzi è come una lunga agonia. Sul decalogo della Donizetti è scritto che disturbare così la magica atmosfera della musica è come mettere i baffi alla Gioconda. E d’estate sarebbe meglio (per tutti) andare all’aperto, se lo sventagliamento deve essere peggio delle pale eoliche. Cui una volta un direttore d’orchestra reagì fermandosi, visto che non riusciva più ad andare a tempo.
Inutile dire che a teatro non si mangia, non si beve, non si fuma. Per la verità non dovrebbe avvenire neanche al cinema, altro luogo troppo collettivo perché la società educata riesca a tener conto degli altri. E dove si vede gente rimorchiare tali secchiate di pop corn da chiedersi se non abbiano il verme solitario. Unite a beveroni di Coca sempre a rischio di rigurgiti da far vergognare un ippopotamo. Vecchia polemica, questa del cinema ridotto a braceria. Tanto che fra uno spettacolo e l’altro ci vorrebbe la Protezione civile (appunto).
LA MANDIBOLA DEL VICINO Così non si sa se per resa incondizionata, dal settembre scorso l’Anteo di Milano ha avviato la formula tavola imbandita più film. Con proiezioni a pranzo, all’aperitivo pomeridiano, a cena. Poltrone con tavolinetto, luce bassa, box con due bottiglie, set di forchetta e coltello, tovaglioli e menu. Anche vegetariano. Diciotto posti in tutto, altrimenti sarebbe un matrimonio. E, si immagina, niente timballo e vino rosso. Essendo l’intento non tanto sdoganare il cinema al banchetto, ma alla socialità. Un tempo si faceva il cineforum con dibattito (anzi <dibbattito> alla Nanni Moretti), ora l’importante è stare insieme, possibilmente sapendoci stare. Accoppiata del resto abituale nelle grandi metropoli d’America e Asia, foss’anche per sandwich, patatine e birra. E forse più adatta a film con i super-eroi che a Woody Allen (se ancòra è un nome che si può pronunciare).
E’ una eredità della cultura pop americana anni ’50, del mitico <drive in>, il cinema seduti in auto. Come in <Grease> e <American Graffiti>, fino alla serie tv <Happy Days> mangiando burger che allora profumavano di futuro. E tutto iniziato con un garagista che stese un lenzuolo fra due alberi nel giardino di casa. <Drive in> qua e là anche in Italia. Come a Pozzuoli (Napoli), con l’audio del film ascoltato dall’autoradio. O a Pontedera (Pisa), dove si può ordinare qualcosa solo accendendo le quattro frecce. Fino al quartiere romano di Casal Palocco, dove c’era il più grande <drive in> d’Europa. Ora recuperato dopo trent’anni di abbandono dai ragazzi del Cinema America Occupato, che proprio in questi giorni la sindaca Raggi vorrebbe sfrattare perché la legge preferisce l’abbandono.
Ma al cinema cinema tu vorresti vederti Meryl Streep e <The Post> senza la colonna sonora delle mandibole altrui. Come a teatro vorresti vedere il saluto degli artisti sul palcoscenico e non l’osso sacro della signora. Non essendoci nulla più di sacro oggi. A cominciare dall’educazione. E figuriamoci la religione.
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