
Il dolore di appartenere al < Maledetto Sud > Perchè chiamate< terroni> noi < marini >?
Martedì 29 ottobre 2013 da " La Gazzetta del Mezzogiorno "
Lascia un Commento Inserito da Lino Patruno
Mettiamo questa recente faccenda dei cori negli stadi contro i napoletani che puzzano. Ancòra una volta ne siamo usciti a modo nostro: prima la sanzione per razzismo, poi i distinguo finché arriveremo a qualche imbroglietto che con una mano condanna con l’altra perdona, lasciando sotto sotto le cose impunite. Ma nessuna meraviglia, dice l’etnologo Vito Teti, visto che “sono arrivati i sudici” fu il benvenuto ai deputati meridionali già il 17 marzo 1861, giorno in cui a Torino fu proclamato il regno d’Italia. E il Sud fu altrettanto prontamente raffigurato come cancrena della nuova nazione nel primo dibattito parlamentare qualche settimana dopo. Così, tanto per capirsi.
Il fatto è che viviamo questo dolore: non è facile per noi italiani dirci italiani, ma non è facile neanche non dirci italiani. Soprattutto se confrontiamo il sogno di più di un millennio con quanto avvenuto negli ultimi 150 anni, cioè da quando italiani siamo riusciti davvero a diventarlo. Come se, al confronto con la realtà, quell’antica aspirazione avesse perso la sua forza di immaginazione, travolta da differenze sottovalutate. Tanto più per chi vive al Sud, anzi al “Maledetto Sud”, titolo dell’ultimo libro appunto di Teti (Einaudi ed., 131 pag., 10 euro).
Maledetto Sud per i tanti altri aggettivi buttati addosso ai meridionali: oziosi, malavitosi, briganti, mafiosi. E pittoreschi, pensa tu. E naturalmente sudici, il più gettonato. In definitiva, una razza inferiore senza la quale, chissà quale Italia dalle magnifiche sorti e progressive avremmo. Lasciamo stare ad altre occasioni la verità dell’argomento opposto: chissà quale Italia avremmo se il Sud avesse potuto esserci a parità di condizioni e diritti (oltre che doveri). Un’Italia che avrebbe bisogno di più Sud non di meno Sud per crescere. E in cui il Sud è la terapia per il declino nazionale non la causa.
Ma lasciamo stare, anche perché Teti rifugge dal meridionalismo di “lamentele e separatezze”, pur non essendo questo il caso. Col citato suo libro il noto studioso, docente di etnologia all’università della Calabria, intende smontare i luoghi comuni sui meridionali, intende spiegare come sono nati gli “sguardi ostili e miopi” verso il Sud per confutarli. E dimostrare come sia in fondo inventata la guerra fra Nord e Sud. Inventata, anzi costruita, come di recente ha pezzo su pezzo rivelato lo storico (milanese) Antonino De Francesco nel suo “La palla al piede. Storia del pregiudizio antimeridionale” (Feltrinelli). Pregiudizio che si manifestava in folklore ma si traduceva in politiche contro il Mezzogiorno, quelle che hanno portato all’attuale divario. Tutt’altro che innocenza.
Teti è ancòra più credibile in quanto non fa sconti ai meridionali come lui: bersagliati dai luoghi comuni altrui ma nello stesso tempo da una auto-commiserazione propria che da un lato può aiutare a vivere, dall’altro fornisce alibi per vivere sempre così. Mentre, aggiunge, occorre raccontarsi le verità scomode invece di negarle o farsele rinfacciare con cattiveria dagli altri. Secondo la lezione di grandi come Dante e Machiavelli, Guicciardini e Leopardi. O di alcuni stessi protagonisti del Risorgimento, da Gioberti a Cesare Balbo.
Consenta il professore l’osservazione che c’è sempre qualche colpa dei meridionali da sottolineare ogni volta che si parla dei danni che hanno subìto, come se non si dovesse mai denunciare sino in fondo la costruzione, rieccola, di una minorità del Mezzogiorno. Insomma come il razzismo negli stadi, è vero ma. O come quella svergognata che era rimasta in cinta, ma un po’. Osservazione comunque del tutto marginale e assolutamente dialettica di fronte alle sublimi pagine del libro che scavano nelle ferite inflitte al Sud, a cominciare da quella emigrazione che pure intellettuali tanto faziosi quanto disonesti hanno descritto come un favore fatto ai “sudici” perché campassero anche loro. E cui Teti oppone la scelta ostinata della “restanza”, i giovani che resistono e non se ne vanno dal Sud.
E’ proprio l’emigrazione ad aver contribuito nonostante tutto alla “fabbrica” degli italiani, una mescolanza, una integrazione fra Nord e Sud che si regge anche su convenienze e rapporti economici e personali molto più innervati di quanto si creda. O di quanto vogliano far credere i fomentatori del dualismo fra Nord e Sud. Pensate un po’, ironizza Teti, quanto sia fuori luogo l’insulto di “terroni” ai meridionali. A parte la nobiltà del rapporto con la terra, a parte che da nessuna parte c’è tanto mare come al Sud, terroni erano chiamati dai cittadini del NordEst anche gli abitanti dei loro paesi interni. I veneti terroni, è una notizia.
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